“Il mio interesse era nel fare qualcosa di concreto (..) oggi guardo quelle case con un occhio diverso.”

“Il mio interesse era nel fare qualcosa di concreto (..) oggi guardo quelle case con un occhio diverso.”

A Valtesse, l’esperienza di volontariato per riscoprire il proprio quartiere

Il racconto di Fabio

 

Ciao Fabio, grazie innanzitutto per la disponibilità. Tu sei stato uno dei volontari di BergamoXBergamo, vuoi raccontarci la tua esperienza?
Tutto è iniziato durante il primo lockdown del 2020, nel pieno dell’emergenza legata al Covid-19. Ero a casa in attesa del pensionamento dopo che la ditta dove lavoravo era stata chiusa. Un po’ perso, come tutti del resto in quel periodo.
Io abito nel quartiere di Valtesse-San Colombano vicino al CTE (il Centro per tutte le età) – che nonostante la vicinanza non conoscevo bene – e mi capitava spesso in quei giorni di guardare il deserto che si presentava fuori dalla finestra di casa. Mi chiedevo se ci potesse essere un’opportunità per fare qualcosa, per sentirmi utile in quel momento di totale immobilismo.
Io non faccio parte delle Rete di Quartiere – all’epoca non sapevo nemmeno cosa fosse – o di altre realtà del territorio, quindi non sapevo come muovermi. È stato grazie ad un’amica, molto attiva sul territorio, che mi sono avvicinato in quanto mi ha indicato un’opportunità che fino ad allora non avevo preso in considerazione: il volontariato.
Mi propose di dare una mano durante quel periodo in cui molti si ritrovarono completamente soli, isolati e in difficoltà anche a svolgere attività semplici come fare la spesa. Già avevo avuto un po’ di esperienza di volontariato in passato, così mi sono chiesto “perché no?”

Quand’è che hai iniziato effettivamente a far parte della squadra di BergamoXBergamo?
Non ricordo con esattezza quando ho iniziato. Era nel pieno dell’emergenza, ed eravamo tutti abbastanza frastornati. Come dicevo, su indicazione di questa mia amica – che poi è stata la referente dell’area di Redona durante l’emergenza – mi sono messo in contattato con BergamoXBergamo, il progetto di volontariato del Comune di Bergamo nato proprio in risposta all’emergenza coronavirus.
Io da normale cittadino, sono sincero, non ero molto attratto dal capire appieno tutta la struttura che stava dietro al progetto, non per disinteresse ma perché il mio obiettivo era nel fare qualcosa di concreto, nel muovermi attivamente. Ho capito poi in un secondo momento la struttura dietro a BergamoXBergamo, un progetto che nonostante la velocità con cui è nato, le difficoltà e la complessità che doveva gestire è riuscito a dare un aiuto concreto, anche in attività piccole ma importanti.
Inizialmente anche tra noi volontari l’organizzazione non era semplice. Non potevamo vederci e spesso non ci conoscevamo tra di noi. Ci sentivamo solo via telefono, per messaggio o videochiamata.

E quali erano le attività che svolgevi?
Le prime attività erano commissioni per persone che non potevano muoversi di casa, come fare la spesa o consegnare dei farmaci.
In una seconda fase è iniziata la distribuzione di mascherine e le attività legate alla collaborazione con il CTE. Più avanti invece abbiamo iniziato quello che ha preso il nome di Buongiorno Bergamo, un progetto per monitorare e aiutare i più anziani. Noi come volontari ci siamo dedicati ad un vero e proprio “porta a porta” e alle telefonate. L’intento era in un certo senso, quello di “scovare” le persone che mancavano all’appello, quelle che nel primo periodo non eravamo riusciti a contattare. Parliamo per lo più di persone anziane over 65, sole di cui non si avevano notizie.

Immagino si trattasse di un’operazione delicata, come vi approcciavate?
Sì, è stata una fase delicata. Considerato che eravamo sconosciuti che suonavano alle porte di persone anziane c’era una naturale e giustificata diffidenza.
Ci si muoveva a piccoli passi. In primis, si iniziava il contatto chiamando per telefono. Per chi non rispondeva si passava al porta a porta. Nel mio quartiere eravamo divisi, circa 5 volontari per zona, ognuno si organizzava più o meno con le proprie tempistiche.
Abbiamo elaborato una sorta di vademecum concordato con i referenti dei servizi Reti di Quartiere e Sociali e il gruppo volontari, una sorta di codice di comportamento per approcciarci a queste persone.
Innanzitutto si doveva evitare di entrare in casa: in quei mesi, c’era ancora molta paura, c’erano molti casi di persone che avevano subito lutti, si percepiva una grande fragilità. C’era questo clima.
Cercavamo quindi un approccio leggero, spiegando perché eravamo lì e cercando di ottenere almeno un recapito telefonico quando non lo avevamo. Si cercava di avere qualche informazione sulla persona anche solo sapere se stesse bene o se avesse bisogno di qualcosa. Ogni volontario ha poi elaborato il suo metodo di approccio, ad esempio io mi facevo aiutare da mia figlia che veniva con me.

Quali erano le reazioni delle persone che incontravate?
Le reazioni erano differenti, a volte non era semplice. C’erano case dove non rispondeva nessuno e a volte si tornava ripetutamente o si cercava aiuto dai vicini. In altri casi, chi rispondeva cercava di tagliare corto al citofono o non voleva dare informazioni. Come dicevo c’era una giustificata diffidenza.
In altri casi ancora c’era una grande gratitudine per il servizio che stavamo offrendo.
Chi rispondeva, spesso ci diceva di avere già un supporto da parenti o conoscenti, mediamente anche chi era solo. C’era chi, invece, aveva subito lutti: ricordo una signora che era da poco rimasta vedova e ci chiedeva informazioni per le spese funerarie. In quei casi era difficile gestire la situazione. Si creava molta empatia, cercando di non essere invadenti, si agiva sempre con molto rispetto.

Cosa ti porti a casa da questa esperienza?
Mi porto a casa molto a livello personale ovviamente. Spesso è stata una scoperta. È stata un’esperienza che mi ha fatto riscoprire il quartiere che abito. Mi ha dato anche l’effettiva dimensione di anzianità del territorio per esempio. Passeggiando per il quartiere spesso non ci pensi, non lo vedi. Oggi guardo quelle case con un occhio diverso.
È stato anche un modo per scoprire una “struttura” che non conoscevo. Mi riferisco al CTE, ai servizi del Comune di Bergamo, alle Reti di Quartiere e a tante realtà che ignoravo.

Ho capito che c’è tanto da fare e che di volontari c’è sempre bisogno, a prescindere dell’emergenza. Investirei sulla ricerca di nuovi volontari trovando il modo migliore per arrivare a nuove persone, con la giusta forma, non “spaventevole”. Un po’ come è successo a me, nel mio caso, penso che ci saranno tante altre persone che hanno voglia di mettersi in gioco ma che non intercettano queste o altre possibilità.
C’è bisogno di informare anche le famiglie che esistono determinati canali. Spingerle a prendere contatti, renderli partecipi e consapevoli che ci sono servizi e persone di cui si possono fidare.

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